L’Italia occupa le ultime posizioni per connettività e uso di Internet rispetto ad altri Paesi d’Europa. Quali sono le cause e cosa fare per metterci al passo degli altri? Assoprovider lo chiede a Maurizio Matteo Dècina, economista e grande conoscitore delle vicende Telecom, autore del saggio Goodbye Telecom.
Quali sono le cause del gap italiano rispetto ad altri Paesi?
«Le cause sono molte e di diversa natura. Innanzitutto, politiche: la privatizzazione di Telecom è stata fatta in modo troppo superficiale. Poi ci sono motivazioni normative: fin quando il codice civile permetterà artifici quali scatole cinesi, leverage buyout o governance privilegiate di minoranze azionarie, non si potrà mai avere all'interno delle grandi aziende piani di sviluppo a beneficio del Paese. E infine ci sono cause mediatiche e sociali: la larga banda da un lato è stata antagonista delle televisioni e dall'altra parte, per la grande diffusione della telefonia mobile, è stata sempre ritenuta di secondo piano. Infine, la politica, a parte gli ultimissimi anni, ha fatto ben poco per mutare il quadro».
Nei tuoi studi analizzi come i debiti di Telecom abbiano ritardato lo sviluppo della Rete in Italia. Cosa è emerso dalle tue analisi?
«Telecom Italia ha ancora in pancia i 30 miliardi delle varie OPE e fusioni varie. Immaginate ora quello che sarebbe successo se questa somma fosse stata investita interamente nella larga banda. Oggi avremmo probabilmente non una rete in FTTC, ma ben due reti in FTTH con impatti macroeconomici sul sistema Paese ben diversi. Si parla di svariati punti percentuali di PIL».
Quali sono i vantaggi di un’economia e una politica che danno spazio ai piccoli provider sulla crescita del PIL e dell’occupazione?
«Basta fare una analisi statistica sul ruolo dei piccoli provider nel resto dei Paesi europei. I numeri dimostrano che più in un sistema economico si ha concorrenza, alto numero di provider, legalità e normative burocratiche che facilitano il business, più il Paese dispone di alte velocità di banda funzionali ad una crescita macroeconomica e sociale. Il ruolo dei piccoli provider è fondamentale, sopratutto con il 5G che rivoluzionerà fra non molto tutto il concetto di rete. Attraverso le microcelle si creeranno degli ecosistemi autonomi che potranno essere gestiti anche da piccoli e piccolissimi provider orientati a delle nicchie verticali di mercato».
Tre cose che tu faresti subito per favorire lo sviluppo della Rete in Italia?
«Scorporare la rete Telecom con un ritorno dello Stato nei piani di sviluppo a lungo termine per creare una rete wholesale a prezzi vantaggiosi per i retailer e con un piano di migrazione da rame a fibra. Favorire la concorrenza nell'ultimo miglio con una pluralità di soluzioni gestite da tanti provider locali, anche piccoli, che creeranno i propri ecosistemi digitali. Promuovere, sopratutto attraverso normative, lo sviluppo di tante soluzioni a vantaggio del benessere sociale quali il telelavoro, la teleassistenza o la telemedicina. Tutte applicazioni che necessitano la larga banda e che riducono i costi degli esercizi tradizionali».
Cosa possono fare i piccoli provider per avere un impatto maggiore sul PIL e occupazione?
«Purtroppo l'associazionismo in Italia non ha mai avuto molto seguito. Chi ci ha provato ha sempre dovuto pagare le conseguenze di un sistema obsoleto che premia lo status quo, funzionale alle solite logiche speculative. Il problema però non è solo a monte, poiché la tradizione italiana è stata sempre caratterizzata da una bassa collaborazione politica e sociale in tutti i livelli. Faccio un esempio: i piccoli azionisti di Telecom dopo anni di lavoro incessante a beneficio del Paese non superano neanche l'1% del capitale di Telecom in un Paese dove ci sono circa 500.000 piccoli azionisti che potrebbero rappresentare oltre il 50% del capitale. Bisognerebbe iniziare con delle politiche che favoriscano l'aggregazione dei piccoli, anche con campagne mediatiche. Anche se i media sono abbastanza moderati, per usare un eufemismo. Vediamo, sarà una bella partita. Il nostro è un Paese che dimostra il meglio nei momenti di difficoltà. La situazione però sta gradualmente migliorando. Non mi sorprenderebbe se fra 5-10 anni avremo raggiunto i Paesi che stanno più avanti».
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